Sull’a-sessualità

Esistono parole che, a prescindere da quello che veramente indicano, si prestano a un abuso perché conferiscono identità a chi è invece soltanto in difficoltà. La parola a-sessualità è una di queste. Insomma, meglio «essere qualcosa» piuttosto che «essere in difetto». Un esempio? Non desiderate più il vostro compagno, che continuate ad amare? Non siete «asessuali», piuttosto avete un «problema». Con ciò non dico che l’asessualità è una invenzione, semmai che questa condizione è postulabile solo in caso di assoluta mancanza di interesse sessuale non riferibile a patologie organiche, non associata a una sofferenza soggettiva e riscontratasi sin dal periodo post-puberale. Se la vostra presunta a-sessualità non risponde a questi requisiti, non sareste mai reclutabili per una ricerca seria a riguardo, anche se sareste ben accolti nelle sezioni per a-sessuali dei circoli arcigay o nella AVEN.it, la comunità degli asessuali italiani.

Aggiungo una cosa: siccome l’uso mediatico del termine dona il conforto di un’identità all’eterogenea umanità che fa a pugni con il desiderio sessuale o, peggio, è affamata di una qualsivoglia identità, ciò pone una questione etica per la quale se tu credi o senti di essere a-sessuale e poi ti innamori di qualcuno, dovrai da subito denunciare al tuo partner tale condizione, poiché una sessualità appassionata non è solo l’orpello dell’amore ma ne è una caratteristica peculiare. Insomma, l’assunzione di un’identità richiede l’assunzione di una responsabilità etica. Il diritto di essere ciò che si vuole deve piegarsi al limite dell’Altro.

CR