I figli che si dimettono dal compito formativo

Oggi la salvezza viene sempre richiesta all’esterno. Ci aspettiamo che lo Stato ci aiuti, che l’azienda ci faciliti con i benefit, che l’ordine professionale ci difenda, che il nostro compagno ci capisca. Non crediamo più che la salvezza passi attraverso i nostri movimenti e le decisioni che prendiamo. La realtà è che per vivere dobbiamo darci da fare: la volontà, quella nostra, è indispensabile alla salvezza. Ma se anche noi genitori lo abbiamo dimenticato, i nostri figli sembrano non averlo mai appreso. Questa è la disarmante radice della crisi dei nostri ragazzi. Ci disarma vederli cadere, incapaci di rialzarsi. Figli che rinunciano al futuro perché non sanno accettare e affrontare la possibilità che la loro immagine ideale venga intaccata dal reale della valutazione scolastica. Si aspettano che nessuno dica che «il re è nudo», neppure a chi è deputata la responsabilità educativa e formativa del giovane principe.

L’azione urticante dell’insuccesso scolastico non ha più il potere di accendere la volontà a trascenderlo, ma determina piuttosto la dimissione anticipata del figlio dal suo compito formativo. Movimento, questo, incomprensibile al genitore a cui non resta, in linea con i tempi, l’aspettativa/speranza che un professionista della mente lo salvi dall’incomprensibile e scandalosa ritirata del figlio. Ciò accade perché prima della volontà (per esempio quella necessaria a studiare per rimediare) bisognerebbe aver fatto amicizia con il proprio «stato di necessità». La nostra cultura – questa è la sua singolare peculiarità – non ama la condizione di necessità, perché tale stato smentisce il fatto che noi si sia davvero signori e misura di tutte le cose, e discopre la nostra condizione di perenne bisogno. Eppure solo attraverso l’esperienza della necessità possiamo sperimentare il ruvido piano del nostro limite e così fronteggiare i grandi temi della vita: la libertà, l’amore, il male. Questioni fondamentali che ci «disturbano», in quanto tutte infiltrate dalla nostra fastidiosa condizione di necessità. Ecco una delle ragioni, forse la più importante, per cui non siamo più genitori in grado di educare. Ecco perché abbiamo completamente ceduto alla scuola la funzione educativa, salvo attaccarla quando questa rimarca i limiti dei nostri figli o richiede loro uno sforzo di volontà.

Insomma, siamo tutti complici nel velare lo stato di necessità o fingere che non esista. Questo assordante silenzio sulla necessità ha dato origine a un vuoto di senso e di valori che è il piano inclinato su cui scivolano i nostri gigli. Ragazzi che di fronte alle difficoltà si piegano e si chiudono in stanza e tutto rifuggono perdendosi nella rete. Così possono evitare di confrontarsi con il senso d’insufficienza, di necessità, che interdice allo stesso tempo anche la richiesta di aiuto, perché ne diverrebbe segno. Sono in attesa di un aiuto, un aiuto che viene dall’esterno. Non riescono a pensare di metterci del proprio, prima di tutto.

Anche i genitori, l’esterno prossimo, sono disarmati. Hanno prodotto ricchezza, ma nessuno ha insegnato loro che cosa farne, salvo spenderla o accumularla. Il benessere, se non è accompagnato da anticorpi educativi e spirituali, illude e indebolisce. Sembra paradossale ma la nostra società è incapace di spiegare la vera necessità di acquisire competenze lavorative, indispensabili, invéro, per ridurre la condizione di necessità di ognuno. Oggi l’acquisire una competenza lavorativa è atto il cui valore assoluto si diluisce sempre più in vaghe fantasie di successo condivise da genitori e figli. E anche la complicità della politica dell’istruzione pubblica non aiuta, che con l’attenzione sulle lauree brevi per tutti ha instillato il disprezzo per le attività manuali, ormai accolte volentieri solo da persone di altri Paesi.

CR