L’onnipotenza masochistica delle donne che producono la loro infelicità

La decisione d’amare comporta l’assunzione della sofferenza. Ma quale? Tante sono le pene d’amore: quelle eccitate dalla gelosia, quelle di chi sente di aver perso il filo dell’amore nel dispiegarsi quotidiano della vita, quelle di chi è stato lasciato e sta facendo i conti con la mancanza, ma anche quelle di chi non può rassegnarsi alla fine di una relazione. Di quest’ultima particolare forma di sofferenza vale dire qualcosa. Sì, perché l’incapacità di rassegnarsi alla fine di una relazione dilata all’infinito la sofferenza che ne deriva. È qualcosa di innaturale, non è un dolore che con il tempo si attenua o scompare con il subentrare di un nuovo amore. Al contrario è una fiamma di sofferenza che brilla nel cuore senza un orizzonte di termine. Viene da domandarsi chi sia la vestale che lo alimenta. Per essere chiari questa peculiare forma di sofferenza è propria di quelle persone, soprattutto donne, che pur avendo ricevuto un palese rifiuto dal partner continuano a sentire e comportarsi come se la partita fosse, in fondo, ancora aperta. Meglio, queste persone sono portatrici di due verità contrapposte. Da una parte hanno consapevolezza che il partner altro sta facendo e che loro non sono più incluse nel suo mondo; ma dall’altra si comportano e si percepiscono come membri di una coppia in crisi dove, a ben guardare, la partita è tutta da giocare. Certo risultano incomprensibili agli ex partner, che investiti dalla loro rabbia e lamentosità li percepiscono fuori luogo, fuori tempo. Eppure «la lasciata» non molla la presa, soffre, si lamenta e accetta anche di essere maltrattata. Infatti, la sua pervicacia nel riproporsi come parte offesa e in attesa di un chiarimento la espone al fastidio o alle intemperanze del suo ex partner, che non comprende le ragioni di questa, per lui ottusa, adesività. E allora ritorna il punto: come è possibile che donne, anche apprezzate e di successo, possano divenire così cieche da negare ciò che sanno, ovvero che la relazione è finita e che lui non ne vuole più sapere, anzi forse già frequenta qualcun’altra. Lo sanno, ma credono altro. Insomma, sono portatrici di due verità personali contrapposte, ma quella più folle che nega la realtà dell’essere stati lasciati è quella preferita in cui si immergono e in cui, a dispetto di quanto canta il coro delle amiche, vogliono fermamente credere. Ma come si può credere a qualcosa che è contraddetto dall’esperienza? E poi perché per loro è così difficile far pace con ciò che le addolora? Ecco le domande la cui risposta può spiegare comportamenti che ci appaiono irrazionali, quasi masochistici e pure talora assillanti in persone per altro normali. Per rispondere è necessario penetrare le loro ragioni meno visibili. Intanto bisogna dire che credere in ciò che non è corroborato dall’esperienza è una diatesi tipicamente umana. La sensazione di essere disarmati di fronte all’incomprensibile che incombe su di noi induce alcuni a credere, cioè ad affidarsi alla protezione di un’entità suprema sovraumana o percepita come superiore. Nel caso specifico, l’ex partner non è un dio e neppure un maestro di vita ma è investito, suo malgrado, di una funzione eccezionale che solo lui può assolvere. Tant’è che il dramma emotivo della «lasciata» si esprime nel «non troverò più nessuno come lui». Lui sembra davvero la chiusura del cerchio, in sua assenza c’è un’emorragia emotiva che svuota e ossessiona. Le ragioni di questa dipendenza sono molteplici, ma volendo individuare un comune denominatore la «lasciata assillante» è attratta da un partner che è ineludibilmente destinato a divenire un ex. Ora per intendere quest’ultima affermazione bisogna premettere che tutti siamo animati da un desiderio inconscio – quindi a noi non noto – che è figlio delle nostre vicissitudini evolutive. Questo desiderio inconscio, nelle «lasciate inconsolabili», è movimentato da un introietto paterno rifiutante, inarrivabile e spasmodicamente desiderato che è la bussola che le guida nella ricerca del partner. Ecco allora che il partner più desiderabile sarà proprio colui di cui si percepirà la diffidenza, l’inaffidabilità, la scarsa disponibilità emotiva, e sono proprio queste caratteristiche narcisistiche che lo rendono splendido agli occhi della futura delusa. Le amiche scorgono ciò che lei non vede e l’avvertono, ma invano, poiché il suo orizzonte esistenziale si è sintonizzato sull’irrisolto incestuoso che anima il suo desiderio inconscio: conquistare l’amore paterno per interposta persona attraverso un partner che per sue specifiche caratteriali accende la competizione con nuove rivali (le altre donne a cui lui non si nega, almeno nei giochi seduttivi) e la speranza di un esito in cui sia lei la preferita tra le altre, ribaltando la fatale esclusione occorsa nell’originario rapporto paterno. L’esaltazione con cui racconta di aver trovato il grande amore sottende la trionfale percezione inconscia di aver infine conquistato il padre, sia pur per interposta persona. Dura poco, perché ha scelto un partner distante, scostante ed emotivamente irraggiungibile e così il paradiso in poco è inferno, e iniziano le recriminazioni sino alla rottura che vale per lui, ma come detto non per lei. Lei ha toccato il cielo con un dito e non intende mollare la presa. Non può lasciare andare colui che è la risposta al suo irrisolto desiderio; solo lui può placare la sua inconscia sete incestuosa. Fa quadrato sul punto, disattende alle sue occupazioni, evita gli amici, attiva un controllo serrato attraverso i social, qualche volta lo aspetta sotto l’ufficio e, quando riesce, gli parla come se ci fosse ancora qualcosa da chiarire e dire sulla loro vicenda amorosa. Ma lui non c’è più da tempo e non comprende perchè lei gli si rivolga come se fossero ancora insieme. Questo disassamento del piano comunicativo genera un’incomprensione frustrante; ma a ben vedere un cenno di lui, una sua ambivalenza o una frase ambigua che apre sono sempre qualcosa in più del muro eretto dal padre verso il suo desiderio incestuoso. Si accontenta di poco, che è comunque più di quel nulla paterno da cui origina la sua bramosia attuale. Lei ha ormai compreso le miserie relazionali del suo ex partner, ma continua a verniciare con l’oro i suoi limiti. Anzi senza questi (incostanza e distanza) un uomo non le pare interessante. Ora, se questa è la ragione sottesa alla fatale attrazione, quale è il perverso ingranaggio che blocca «l’inconsolabile» nella mortifera aspirazione a tenere chi da tempo è altrove? C’è in questa posizione qualcosa di grandioso. La sua perseveranza, sorda all’evidenza, è tale perché crede – e ha bisogno di credere – nella potenza della sua volontà di piegare l’ex partner alla sua ragione, che lei chiama d’amore. Questa fantasia onnipotente, che pervicacemente nega il dato reale, è tanto più forte quanto vibrante è la frustrazione originaria del desiderio incestuoso che, non avendo potuto imboccare altra strada evolutiva, l’ha consegnata alla percezione di un essere incompiuto. È proprio questa originaria vulnerabilità, eccitata e accecata dalla possibilità della soluzione, che conferisce alla protagonista un’acefala determinazione nel perseguire un progetto d’amore che, agli occhi degli altri, è già da tempo fallito e inclinato su di una deriva mortifera. Eppure, questa donna, attratta dall’elusività narcisistica di un partner accessibile solo a tempo determinato, è convinta di poterlo torcere, con la devozione o con la guerra, alla sua ragione di cuore e di economia psichica. In questo modo non fa altro però che suggellare la fatale attrazione tra il narcisismo di chi si è concesso con il contagocce, illudendo, e l’onnipotenza masochistica di chi attende la resa esponendosi a ogni sorta di frustrazione pur di continuare a illudersi che tappare il buco evolutivo sia la chiave della felicità.

CR