L’ambito status di vittima quale generatore di identità

A nessuno occorre chiedere chi sia una vittima, poiché ci è chiaro che è qualcuno che ha subíto o a cui è stato tolto. La vittima non ha fatto, le è stato fatto. Eppure la vittima è una figura ambigua del nostro tempo poiché non è più solo minorità e mancanza, ma ad altro è assurta. Certo, ci sono le vittime vere e quelle immaginarie, però tra queste e le prime il tragitto è lungo e accidentato, ed è divenuto uno spazio sempre più affollato. Perché oggi «essere vittima» conferisce prestigio e impone ascolto. Nei talk show l’intervista alla vittima crea audience, ne è prova il fatto che chi vittima non è stato si prodiga a ricercare una vicenda del suo passato, soprattutto recente, che possa fregiarsi del pedigree del traumatico. Si può pensare che ciò accada per agguantare qualche brandello di popolarità, e questo è vero, ma c’è di più. Oggi «essere vittima» non è solo strumento di popolarità, ma anche e soprattutto un potente generatore di identità. E ciò ha molto valore in un tempo in cui ogni identità è posticcia o mutevole. Accade, quindi, che nel cavo di ciò che è stato sottratto, di ciò che non c’è più e che dovrebbe sancire la minorità della vittima si realizza paradossalmente un supplemento di sé, una pienezza che a partire da quel vuoto genera incessantemente identità. Ecco spiegata la posizione ambigua della vittima ai giorni nostri, che da figura della mancanza è divenuta identità, valore e posizione strategica da occupare a ogni costo, perché la vittima non risponde di nulla: non agisce ma patisce e, quindi, non è responsabile di nulla, non deve rispondere a nessuno, dev’essere risarcita e, più di tutto, nel suo essere meno è entità indiscussa e non mutevole. Che sia questo lo spirito del tempo che decreta l’odierno successo di tutte quelle teorie psicologiche che pongono l’abuso, e quindi la vittima, al centro della loro comprensione psicopatologica e del loro trattamento?

CR