Ha senso aiutare chi commette crimini sessuali?

Forse ai più non interessa sapere qualcosa su chi commette reati sessuali. O, meglio, già si sa tutto: esseri odiosi, «mostri», persone da rinchiudere in carcere e buttare la chiave o alla peggio da castrare, se non chirurgicamente almeno attraverso la chimica. È una posizione legittima e comprensibile, soprattutto da parte di chi un abuso l’ha subito. Diventa una posizione pericolosa se, per compiacere il pregiudizio sociale, la politica e tutti quelli che sono professionalmente coinvolti nella vicenda si uniformano alla percezione negativa collettiva.

Questa corsa alla stigmatizzazione degli autori di reati sessuali ci ha già posizionato in Europa tra gli ultimi per quanto concerne la gestione del problema. In Germania per una condanna superiore ai due anni è di fatto d’obbligo partecipare a un trattamento socio-riabilitativo. In Austria si effettua un accurato assessment del rischio di recidiva, oltre che della personalità e dei disturbi mentali, in tutti i soggetti che hanno commesso abusi sessuali e hanno meno di 25 anni di età, una pena superiore ai 4 anni se sono recidivanti o hanno commesso abusi su minori. In Inghilterra i criminali sessuali che risultano a basso rischio di recidiva non vanno in carcere ma sono supervisionati da servizi appositi e partecipano a trattamenti di gruppo ambulatoriali.

Insomma, fuori dai nostri confini si è compreso che la carcerazione non è una risposta sufficiente per gestire responsabilmente il rischio di reiterazione del reato. Serve altro: attuare programmi di trattamento specifici, supervisionare i soggetti in libertà vigilata, assistere il reintegro sociale e familiare, trattare le dipendenze spesso associate al comportamento sessuale abusante, fornire quando necessario assistenza psichiatrica. Attuare cioè un aftercare planning a misura degli individui quando dismessi dall’istituto carcerario, se mai ci entrano. In Italia invece il carcere è la sola risposta; e se il punto assurge al piano della politica, questa pare solo interessata a sventolare la bandiera della castrazione chimica – che per inciso non è una pena ma è, al di là dell’arco alpino, un’opzione terapeutica tra le possibili.

Nel nostro Paese non vengono erogati fondi per il trattamento intracarcerario degli autori di reato sessuale. Questo è attuato a macchia di leopardo da poche associazioni private a cui tocca l’onere di reperire i fondi per operare, senza nessuna garanzia di continuità. Perché per i «mostri» non paga spendere denari. Eppure paga, come consentono di affermare trent’anni di ricerca scientifica. Paga, perché una presa in carico, un adeguato percorso trattamentale, un buon reinserimento sociale riducono il rischio di recidiva e il conseguente male che ogni abuso espande con drammatica democraticità sulla vittima e sulle persone che le stanno intorno, così come pure sui familiari di chi ha commesso il crimine. Tamponare queste molteplici emorragie di sofferenza sarebbe etico e utile, oltre che possibile, come già succede altrove con buoni risultati. Perché in Italia ciò non accada è questione che trascende le mie specifiche competenze.

CR