L’inebriante e nefasta radice seduttiva della menzogna

In ogni tempo e in ogni contesto culturale si pratica la menzogna. Per quanto sia una declinazione relazionale normalmente esecrata, tutti mentiamo, mentiamo alle persone più care e agli estranei, e anche a noi stessi. Dunque, il mentire è fenomeno universale e le sue ragioni sono varie e distinguibili in base alle motivazioni che spingono l’individuo a farlo. Esistono, infatti, diversi tipi di menzogna: per evitare una punizione, un conflitto, per difendere la propria autonomia, per difendere se stessi o altri, per essere approvati, per acquisire credito e per autoingannarsi. Qui, però, non intendo analizzare le diverse ragioni, talora anche innocenti, sottese alla menzogna, ma mi preme piuttosto operare un’analisi descrittiva di questa quando diviene habitus in soggetti che mentono per manipolare, per ottenere vantaggi senza preoccuparsi delle conseguenze emotive e relazionali che il loro comportamento può produrre negli altri, che hanno talmente interiorizzato il meccanismo menzognero che vi convivono in maniera egosintonica senza percepirne l’inopportunità, la mancanza di eticità.

Per iniziare bisogna intanto precisare che una cosa non vera detta per errore, ignoranza o per convinzione che sia vera mentre non lo è, non è una menzogna; la cifra autentica di questa infatti è nella volontà, nel proposito, nell’intenzionalità di ingannare. Un’affermazione è menzognera solo quando è innervata dalla deliberata volontà di ingannare l’altro: questo è l’aspetto decisivo che la rende tale. Mentre è accessoria e non necessaria l’intenzione di nuocere all’altro. Ci sono, infatti, menzogne che sono un’autodifesa, una protezione di sé, e non mirano neppure minimamente al male dell’altro. E fin qui nulla di nuovo, già Jean Jacques Rousseau affermava: «Asserire il falso è mentire soltanto se esiste l’intenzione d’ingannare; e perfino l’intenzione d’ingannare, lungi dall’essere sempre unita con quella di nuocere, qualche volta ha un fine addirittura contrario».

Esistono quindi menzogne a fin di bene eppure anche queste, come le altre meno benigne, sono animate da una fascinosa forza oscura la cui attrattività risiede nel potere di ricreare una verità nuova, di plasmarla a piacimento, di manipolare l’altro inducendolo a credere e a fare secondo l’indirizzo dell’inganno. Ecco il fascino implicito della menzogna: si percepisce il proprio potere molto più ingannando che dicendo la verità, che attenendosi all’impegnativa e opaca attinenza tra i fatti e le parole. La menzogna spezza intenzionalmente questa virtuosa corrispondenza al fine di ingannare l’altro. Vi è qualcosa di perversamente grandioso nella menzogna, cioè nella manipolazione e distorsione della realtà che prova a imitare l’azione creatrice di Dio che parlò e ciò che disse «fu». Colui che inganna, però, induce l’altro a credere vero ciò che lui dice e che dice sapendolo falso, cioè fa esistere, a differenza di Dio, ciò che non è. A ben guardare, però, il potere seduttivo della menzogna non è solo nella parodia narcisistica dell’atto divino che il mentitore attua per emanciparsi dai limiti immanenti della verità. No, c’è altro, infatti la menzogna nel suo realizzarsi si anima di erotismo perverso perché l’inganno di successo equivale sempre a una penetrazione simbolica. Il mentitore, infatti, inducendo l’altro a credere alla menzogna, di fatto lo penetra, lo possiede, lo domina e di ciò gode. Si tratta di un godimento non etico, quindi perverso, poiché si declina solo e sempre sulla sponda del mentitore che nei fatti si masturba con la corrività della sua vittima. Dunque sapere, potere e godimento si trovano così perversamente intrecciati nell’atto menzognero.

Ma il trionfo del mentitore è a tempo determinato. L’inebriante pratica della menzogna assoggetta, nel tempo, anche il mentitore. La menzogna diviene la sua prigione. C’è sempre, infatti, un momento di cedimento in cui colui che mente vorrebbe dire la verità, ma non è più possibile, la vergogna lo impedisce. Già perché c’è una stretta connessione fra menzogna e vergogna: in entrambe è il volto che viene celato. Chi si vergogna vuole eclissarsi, nascondere il proprio volto, chi mente indossa una maschera e occulta il proprio volto dietro di essa sottraendosi allo sguardo dell’altro ma in assenza di questo – e qui è lo scacco in cui la menzogna relega il menzognero – l’identità del menzognero coincide sempre di più con le sue menzogne collassandosi in queste.  

E se mai alla cronica pratica della menzogna qualche frammento d’identità sopravviva, pressoché inevitabile è il tracollo d’immagine del menzognero. Chi gli ha creduto ora si distanzia atterrito: chi è costui? Lui che si è nascosto agli altri facendo credere loro di tutto, ora vive un contrappasso per cui tutto ciò che dice, magari anche il vero, non può più essere creduto. Ecco in breve l’inebriante e nefasta radice seduttiva della menzogna per cui chi la pratica è martello in attesa di diventare incudine . 

CR