Su come la cultura indirizza la scienza sessuologica

«Essere padroni e signori della natura.» Ecco il compito che il filosofo René Descartes ha assegnato all’occidente pensante nel XVII secolo. A distanza di più tre secoli l’indirizzo cartesiano opera ancora in noi, con però una particolarità di rilievo. Oggi, la «natura» che siamo stati chiamati a «padroneggiare» non è solo quella in cui siamo ma ciò che noi siamo, sia in senso biologico sia mentale. Oggi, infatti, attraverso l’evoluzione delle tecnologie scientifiche l’essere umano non mira più al padroneggiamento della natura circostante, anzi di ciò si è pentito, ma opera sempre più alacremente sulla sua stessa natura, ambendo a diventare assoluto padrone e signore della sua mente e del suo corpo. Così si spiega perché sempre di più chiediamo allo specialista di qualche cosa di farci da guida in questo progetto che, in apparenza legittimato da istanze salutiste, coltiva invero il superbo progetto di invecchiare restando giovani. Ai nutrizionisti e ai dietologi chiediamo cosa mangiare, agli specialisti delle tossicodipendenze come smettere di fumare o bere, ai chirurghi estetici di avvicinare il nostro aspetto all’ideale fisico del momento, ai sessuologi come provare più piacere, agli psicopedagoghi come allevare i figli, ai fisiatri, fisioterapisti, osteopati, chinesiterapisti e maestri di yoga come correggere la nostra postura e usare il nostro corpo, agli psicologi, agli psichiatri e ai filosofi come ripulirci di ogni nostra normale malmostosa secrezione emotiva per essere sempre felici, ai social di esibire qualcosa di nostro utile a certificare ad altri che la nostra vita è migliore della loro, ai coach come ottimizzare le nostre prestazioni. La lista delle professioni nate sulla richiesta di tutoraggio biologico e psicologico o che a questa si sono convertite, almeno in parte, per soddisfarla è assai più estesa, al punto che si potrebbe, se fossimo economisti, parlare di un «settore quarto» per intendere tutte quelle professioni votate a dare sostanza alla moderna impresa del controllo del proprio corpo e della propria mente.

Insomma, è da rimarcare che oggi gli esseri umani né si accontentano né si rassegnano ad essere quel che sono per nascita e per il trascorrere della loro vita, ma si appellano alle scienze per diventare ciò che desiderano essere e che la tecnologia scientifica inizia a realizzare e non solo più a promettere. L’ambizione e la pressione culturale a dirigere il proprio corpo e la propria mente è divenuto un tratto essenziale degli esseri umani occidentali. Ora, da un vertice di analisi psicologica questo sforzarsi di governare il corpo e l’emotività ha favorito il costituirsi di un «interno soggettivo» rigido e implacabile. Si pensi come la regola di mantenersi sotto un certo peso domini dispoticamente le donne, ma ormai anche gli uomini. Si pensi come il bisogno di conformarsi a un ideale corporeo induca adolescenti a richiedere interventi sul seno per modellarlo a piacimento e non perché cadente. Si pensi alla facilità con cui siamo additati e ci percepiamo come dipendenti, per esempio dal consumo di carboidrati, solo per il fatto che ci sono particolarmente graditi. Eppure sociologi di razza come Zygmunt Bauman ci insegnano che viviamo in un tempo «liquido» dove le norme sociali si sono attenuate. È vero: nessuna legge punisce più l’adulterio e anzi stiamo «conquistando» la libertà di definirci rispetto al genere di appartenenza come più ci aggrada; eppure la passione del controllo del corpo e della mente si è saldamente installata e ci costringe a imbarazzanti messe a punto all’interno dei gabinetti di chirurgia estetica, a curiose richieste di azzeramento del disagio emotivo negli studi degli psichiatri e a regimi dietetici o ad allenamenti estenuanti senza dubbio fuori luogo per l’età del praticante. Però attenzione, perché insieme a questa tensione al controllo del corpo e della mente ne circola un’altra, opposta, che ha nel tendere al piacere, alla spontaneità, alla spensieratezza, alla naturalità il suo orizzonte compiuto. Ecco che, come sempre accade in tutte le epoche, due linee di indirizzo contrapposte si declinano nel sentimento del tempo e si intrecciano in modo fatalmente conflittuale dentro ciascuno di noi: come è possibile essere naturali e controllati nel contempo? Nulla di strano, in ogni epoca il diavolo si è sempre mescolato con l’acqua santa e a ognuno di noi tocca il compito di posizionarsi nel contraddittorio che corre sui fili di pensiero contrapposti della cultura del momento. Ma tornando all’ultima disposizione, la valorizzazione dell’istintualità, della naturalità, dell’animalità, della disinibizione, della spigliatezza e anche della sfacciataggine, si è coagulata in uno stile di vita edonistico, spontaneistico, naturalista e libertario – quindi dionisiaco – che, in concerto con la volontà di far prevalere il dominio della mente sui corpi o, se preferite, della cultura sulla natura, sta condizionando il modo di sentire, misurare e valutare i fatti, fino a indirizzare la riflessione scientifica nel particolarissimo ambito su quale sia il confine tra sessualità normale e patologica.

Voglio dire che la diagnostica psichiatrica negli ultimi cinquant’anni sta tentando di coalizzare gli indirizzi culturali, di cui sopra, con contenuti più specialistici. Questi indirizzi, che come ogni filosofia popolare sono mutevoli e conflittuali, hanno pervaso radicalmente la riflessione diagnostica, soprattutto in un ambito sensibile quale quello della sessualità. Uno dei prodotti più eclatanti emersi da siffatto ribollente calderone è stata l’eliminazione dai manuali diagnostici dell’omosessualità intesa come espressione patologica dell’orientamento sessuale. Ora questa esclusione non è avvenuta a ragione di qualche nuova e decisiva scoperta scientifica. In realtà, l’eliminazione fu l’effetto di un cambiamento etico e politico maturato negli anni ‘70 negli Stati Uniti. Lì venne a crearsi un vasto appoggio intellettuale alla causa di gay e lesbiche. Attivisti omosessuali inscenarono una protesta innanzi alla sede di un congresso dell’American Psychiatric Association che ebbe un eco mediatico di rilievo e ciò convinse molti psichiatri nel 1974 a votare – avete letto bene «a votare» – per l’eliminazione dell’omosessualità come patologia. Per inciso l’eliminazione dell’omosessualità vinse per 58% dei voti contro 38%. Ora una cosa del genere, che non accade mai in una scienza matura che per su natura non è democratica ma assoggettata all’imperio dell’evidenza, ci aiuta a intendere come la diagnostica psichiatrica, soprattutto nel campo della sessuologia, sia il risultato di una negoziazione politica tra correnti, teorie, interessi e filosofie popolari dominanti. Nel caso dell’omosessualità non sbagliamo quindi se affermiamo che la diagnostica sessuologica si è adeguata a una mutazione della mentalità. Nulla di nuovo, fellatio e cunnilingus qualche decennio prima della famosa votazione erano rubricati come atti «perversi» da psichiatri e psicologi, oggi queste sono pratiche ritenute normali che se suscitano disgusto gettano, all’opposto, un’ombra di patologia. Ora questa posizione nei confronti dell’omosessualità, come dei preliminari, ma anche verso tutte le forme di sessualità che solo qualche decennio fa indicavamo come perverse, è cambiata in obbedienza alla crescente volontà di emanciparsi da qualsivoglia legaccio culturale che limiti il controllo individuale delle proprie tendenze sessuali, sia del corpo sia della mente, cioè le fantasie; è cambiata in conformità a una concezione naturalistica della sessualità che in quanto tale emancipa ogni sua espressione dall’ombra della patologia e, infine, in conformità al principio utilitarista secondo cui non può essere considerato criminale né patologico un comportamento che miri a produrre piacere in un individuo, purché la ricerca e il raggiungimento di questo piacere non produca dispiacere in qualcun altro. Per inciso, a eccezione del tradimento, perché l’entrata nell’agone dell’amore è volontaria e chi vi entra conosce i rischi che corre. Il paradigma utilitarista decreta quindi che è legittima ogni ricerca individuale del piacere. Oggi questa etica ha indossato il vestito del «diritto» civile e umano per cui è legittimo anzi doveroso decostruire ogni impianto culturale relativo alla famiglia, all’orientamento sessuale e di genere, ciò con nessuna attenzione allo smarrimento in cui versano eserciti di adolescenti, poiché evidentemente la «libertà di essere tutto» è percepita come più «utile» della confusione che essa genera.

Tornando nel punto centrale della riflessione e per concludere, i manuali diagnostici psichiatrici –su tutti il manuale per eccellenza, il DSM – che vorremmo scientifici, si sono, come sempre, impregnati del sentimento del tempo, che oggi è liberistico, naturalistico e utilitaristico, e così nel  sesso «ogni comportamento è legittimo purché piaccia e non faccia male ad altri» e ogni tentativo di circoscrivere qualche preferenza sessuale «strana» nel vittoriano orto della patologia non è che una torsione reazionaria della cultura sulla natura, da censurare sine comparatione. Così in una manciata di anni abbiamo assistito all’esclusione dal patologico dall’omosessualità e alla normalizzazione delle perversioni e dei transessualismi. La stessa pedofilia si considera una deviazione «normale» della sessualità a patto che il desiderio pedofilo non si metta in atto. Ma in questo caso è il codice penale a dirci che non va bene e la diagnostica a questo si è semplicemente accodata, perché in difficoltà nel contraddire il principio di utilità nel pedofilo e perché c’è incertezza nel definire cosa debba essere considerato utile, quindi piacevole, nel minore. La destrutturazione della normatività sull’altare delle filosofie popolari sta quindi conducendo a morte il concetto di malattia, almeno in psicopatologia sessuale. Ogni comportamento sessuale, per aberrante che possa apparirci, è legittimo poiché emanazione di un soggetto naturale; solo nel caso che tale comportamento dispiaccia a chi lo agisce assume legittimità un intervento terapeutico. Nel contesto di un tal modo di concepire la sessualità la funzione del terapeuta non è più restituire all’integrità o avvicinare alla «normalità» il supposto malfunzionamento psichico, ma semplicemente accordare il comportamento che «dispiace» ai desiderata del soggetto. Ed è sul ciglio di questa scivolosa sponda che i veri sessuologi debbono definire il senso del loro operare terapeutico che altrimenti si smarrisce nelle torbide acque dell’edonismo culturale che si è fatto diritto e orizzonte.