Sesso chimico

Il sesso chimico o chemsex è una pratica in rapida crescita che riguarda il 20-30% degli uomini che fanno sesso con altri uomini.

Intuitivamente, si potrebbe pensare che il chemsex sia un comune consumo di droghe. Non è proprio così. Nella definizione indicata dalla letteratura scientifica si tratta di una pratica sessuale attuata tra maschi sotto l’effetto di sostanze per aumentare la durata, la qualità o l’intensità dell’esperienza sessuale, ma anche per «gestire» problemi legati all’intimità e alla prestazione. Più spesso si usa un cocktail di sostanze costituito principalmente da acido gamma-idrossibutirrico (GHB), catinoni (analoghi sintetici del catinone, una molecola psicoattiva presente nella pianta del khat) e metanfetamina in cristalli. Nel chemsex anche lo smartphone, attraverso le app di dating, cioè le applicazioni geolocalizzate che consentono di trovare immediatamente un partner, svolge un ruolo centrale.

Poiché l’incontro sessuale è mediato dalle app, spesso si tratta di un impegno ad avere una rapporto sessuale già prima dell’incontro. Non è quindi una persona a innescare il desiderio di sesso, ma è l’idea della promiscuità anonima in cui il divenire puro oggetto d’uso, attivo o passivo che sia, è la scintilla che attiva la ricerca drogata di un partner. Tuttavia impegnarsi a fare sesso con una persona che non si conosce e in cui l’immaginario sessuale correlato al contesto è scandito essenzialmente da copioni performativi legati alla pornografia, spinge ad assumere sostanze chimiche per «lasciarsi andare», per avere livelli di eccitazione molto elevati e per essere performanti.  

Inizialmente si ha l’impressione che la sessualità sia più intensa e connessa al partner. In realtà, si assiste al procedere dell’azzeramento della risposta sessuale fisiologica – cioè il desiderio cui segue l’eccitazione, il plateau e infine l’orgasmo. Il partner sessuale in quanto soggetto si liquefà a favore di una successione di corpi la cui unica funzione è quella di soddisfare l’eccitazione drogata del soggetto. Si tratta di consumo di «sesso» piuttosto che di un incontro sessuale indirizzato dal desiderio.

È una pratica critica per via dell’alto rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili, ma anche lesioni fisiche poiché le sessioni sessuali possono durare molte ore. Sono possibili anche derive psicopatologiche, poiché le droghe possono indurre flessione del tono dell’umore, crisi paranoidi, mutilazioni e anche scompensi psicotici. Inoltre, nel tempo, la sessualità è cannibalizzata dall’uso di sostanze: non si è più in grado di dissociare l’incontro sessuale dall’uso di sostanze, costituendosi una dipendenza da esse attraverso il terreno apparentemente «ludico» della sessualità.

Anche se ci sono persone che riescono a tenere sotto controllo questa pratica, è vero che queste sostanze creano una forte dipendenza a ragione della loro azione dopaminergica. Costoro, infatti, sono consapevoli delle conseguenze negative del chemsex sul lavoro, nella vita amorosa, famigliare e amicale, eppure il piacere correlato alla sostanza diluisce intenzioni e capacità decisionale. È possibile un trattamento? Si, ma un singolo terapeuta è perdente. È necessaria un’assistenza multidisciplinare: uno psichiatra che sia in grado di individuare le comorbidità psichiatriche; un tossicologo che abbia familiarità con le sostanze; un sessuologo per affrontare le disfunzioni sessuali e rianimare l’immaginario sessuale; uno psicologo che si occupi della riduzione del rischio di recidiva e, infine, uno psicoterapeuta, considerato che alcuni di questi pazienti hanno subito abusi sessuali nell’infanzia. In definitiva, il chemsex è una porta d’accesso, un problema che in apparenza è sessuale, ma è di fatto un velo che cela problemi emotivi che trascendono il mero ambito sessuale. 

CR