L’attacco al Bataclan: capire che l’identità è più importante della vita

Sono le 21.40 del 13 novembre 2015 quando un’auto si ferma davanti al teatro Bataclan. Scendono tre terroristi con i fucili ed entrano nel locale iniziando a sparare sulla folla che è lì al concerto degli Eagles of Death Metal. Poco dopo alcuni agenti di polizia tentano un’incursione e sparano contro un terrorista che si fa però esplodere. La polizia riesce a entrare nel Bataclan solo dopo la mezzanotte. Un’operazione che dura circa mezz’ora e che porta all’uccisione dei due terroristi ancora in vita. Anche uno di loro però si fa esplodere, così che il numero delle vittime all’interno del locale arriva a 90.

Ero restio a fermarmi a riflettere su un evento così tragico, che ha accomunato tutti nella rabbia e nel cordoglio. È materia di sociologi, politici, politologi e strateghi, che legittimamente si sono espressi. Ma qualcosa che attiene al mio campo, sia pur tangenzialmente, mi sembra tuttavia utile esporre, in merito al fascino della narrazione estremista che oggi sembra aver tanta presa. Presa che si esercita soprattutto sui giovani che ancora non hanno definito gli obiettivi per il futuro e provano un senso di frustrazione, che si sentono attratti da una chiamata a una causa più alta. Per questo, secondo alcuni analisti, tra cui Olivier Roy, i fenomeni di radicalizzazione islamizzata non sarebbero altro che una «rivolta generazionale» di giovani «in cerca di una causa, di un’etichetta, di una grande narrazione su cui apporre la firma sanguinaria della loro rivolta personale», di cittadini che vivono un disagio personale, un vuoto valoriale, che covano un odio socio-generazionale che, come afferma Aitala, «trovano nell’idea eroica, grandiosa e globale abbinata all’astuta narrazione dello Stato islamico una causa di vita nella loro affermazione nichilista».

Ciò è condivisibile, ma vorrei anche dire che la possibilità di trovare un senso alla propria vita non è meccanicamente soffocato dalle condizioni socio-culturali di partenza o dall’etnia. Il moderno Occidente si caratterizza anche per la presenza di ascensori sociali: non è vero che è irrimediabilmente fiaccato dalla piaga delle raccomandazioni o dalla fortuna di nascita, chi è bravo ce la fa, trova il suo spazio e sale socialmente. Insomma, la nascita non è solo più un destino. È vero però che chi non è brillante o ha poca volontà rimane al palo, con un non saturato bisogno d’identità che la delinquenza o il fanatismo ideologico sanno intercettare. Dare un senso alla vita quando questa non l’ha mai avuta diventa un’esigenza psicologica primaria.

Le ideologie estreme promettono e mantengono, e proprio per questo hanno un appeal così forte. L’identità è il punto centrale, i nostri foreign fighters sono la dimostrazione che non si può vivere senza appartenere, senza un senso di identità e, per agguantarlo, il sacrificio della vita è un’opzione praticabile e non scandalosa come a noi appare. Certo, il bisogno psicologico d’identità è più importante della vita. Di questo bisogna tener conto guardando alla moltitudine di giovani che non sono «così bravi» da salire sugli ascensori sociali di una società più interessata a coltivare e ad appropriarsi dell’eccellenza dei suoi membri migliori piuttosto che a dare risposte ai bisogni psicologici primari di quei tanti che non sanno prendere quegli ascensori e confluiscono pertanto nel ribollente calderone della marginalità, in cui prospera il virus della narrazione estremista.

CR