La pulsione identificatoria delle donne

Elisabetta Rosso, una giornalista che pubblica su Fanpage, in un suo pezzo scrive: «Si cataloga, tutto, anche le donne. E su un social come Tiktok che lavora sugli hashtag questo fenomeno è amplificato. Sulla piattaforma ci sono donne che combattono per far valere i loro diritti, ma c’è anche altro… Donne che video dopo video distruggono il femminismo. Consapevolmente o meno. Dalle tradwife, alle girlboss, il denominatore comune è la ricerca disperata di identità che sfocia in stereotipi pericolosi, piatti, macchiettistici. Sono donne che dicono ad altre donne come bisogna essere donne». Ci sono le #tradwives «Pin up rispolverate che vengono traghettate dagli anni ‘50 in cucine moderne e attrezzatissime. Puliscono i piatti al rallenty, cucinano i piatti preferiti dai mariti, mostrano elettrodomestici luccicanti… Le donne non possono fare tutto, dicono: è giusto, naturale, rinunciare all’indipendenza finanziaria e dedicarsi alle faccende domestiche… i mariti devono sempre venire prima per avere un matrimonio felice… suggeriscono il ritorno all’era della maternità agraria. Quando una donna e una vacca da procreazione non erano poi cose così diverse». Le #Fleabag disegnano tutt’altro scenario. «I rossetti sbavati, servono solo a sporcare le labbra, a mischiarsi con il mascara che incrosta le ciglia dalla sera prima. Su tiktok, la donna Fleabag è diventata un’icona. Pericolosissima. A metà tra una femme fatale e un’eroina decadente… Spesso nei video le ragazze si riprendono con il trucco nero sciolto dal pianto… Un atteggiamento nichilista verso il progresso femminile. Queste donne descrivono il loro desiderio di persistere in relazioni dannose… strisciando sopra un’insoddisfazione profonda che le svuota di valore… Donne tormentate e rotte che analizzano la desolante realtà della femminilità contemporanea. Le ragazze #pickme che sono ragazze «che prendono in giro altre ragazze che prendono in giro altre ragazze… Sono donne che cercano l’approvazione maschile insinuando indirettamente o direttamente che non sono come le altre. Nel farlo, denigrano il genere femminile attraverso comportamenti misogini. Per capirci, la pick me girl è quella che dice: ho solo amici maschi perché le altre donne sono invidiose e superficiali, oppure: non metto mai il trucco, mangio un doppio cheeseburger non l’insalata come le altre… Si pongono come quelle senza filtri, insomma, superiori. Nel farlo creano uno stereotipo su come essere ragazze ‘’vere».  

Infine le #Girlboss, donne in carriera che «si mettono in scena con foto e video dove si mostrano in pose forti e abiti eleganti, giocando sul mix di femminilità e dominanza. Oppure si riprendono sul posto di lavoro mostrando la loro dedizione e produttività. È la deriva di un femminismo aziendale dove la donna non vince le regole del capitalismo ma si inserisce in esse con un andamento individualista». Insomma è creata su Tik Tok un’estetica che dice che se vuoi avere successo devi essere così.

La giornalista termina asserendo che tutte queste etichette marchiate con hashtag costringono il genere femminile in categorie prestabilite. Si tratta, dice, di una antica tradizione per cui c’è sempre qualcuno o qualcuna che dice alle donne come bisogna essere donna. Per non corrompere un faticosissimo percorso verso l’emancipazione – afferma la giornalista – forse le donne dovrebbero essere le prime a smettere di farlo.

Eppure non accade e «il che cosa sia una donna» continua a essere oggetto di una pulsione definitoria che, se si è attenuata (almeno in apparenza) sul versante maschile con la crisi della cultura patriarcale, non pare certo lo sia altrettanto sul versante femminile, dove l’arretrare della pressione maschile ha disvelato definitivamente la pulsione definitoria insita nel femminile per il femminile.

Tendando una lettura psicologica di ciò che ha descritto la giornalista credo che si possa affermare, indirizzati dallo psicoanalista francese Jaques Lacan, che ciò avvieneperché il vero fallo è delle donne!». Ma che cosa significa un’affermazione così paradossale? Provo a spiegare.

Il fallo – il pene eretto per intenderci – simboleggia la fertilità, il potere, la forza, insomma la pienezza dell’essere, un essere non intaccato dalla miseria del limite (la nostra vita è segnata dai limiti del corpo, della mente, dell’Altro che eccede sempre le nostre aspettative). Certo l’uomo ha il fallo, ma chi ha un fallo può perderlo; del resto questa è un’evenienza temuta che colonizza il sentire maschile. Ma chi, invece, «non lo ha» (il fallo) – la donna – può acquisirlo indossandone le insegne (tacchi alti, vestiti sexy, un piglio deciso nell’agire, un modo di vestire che poco concede alla femminilità, ma anche un modo di essere o di abbigliarsi che indichi una femminilità non intaccata da alcuna incertezza ecc.) in modo da rendere il corpo un feticcio del fallo.  Da sempre questo movimento è necessario per animare il desiderio sessuale, ma qui interessa come la traccia feticistica che anima il corpo femminile si ponga al servizio della costruzione di identità.

Ecco allora che le donne non hanno il fallo, ma da sempre possono diventare fallo, cioè «essere fallo». Un fallo speciale, che proprio poiché «non si ha» non può essere perso. Un fallo, quindi, che rimanda alla vera pienezza dell’essere: fertilità, potenza, energia inesauribile, qualità queste che spesso riconosciamo connotare il femminile.

Ma in questa torsione feticistica vi è, a mio modo di intendere, la spiegazione psicologica della attuale coppia identitaria del femminile e della sua conseguente pulsione identificatoria. Infatti, essendosi attenuato il tradizionale cemento identificatorio biologico della maternità, le donne hanno conquistato la pesante libertà di definirsi oltre questa. Compito complesso, ma per fare le cose difficili la via già battuta è spesso quella più praticata. Il farsi fallo, il farsi feticcio del fallo – ovvero indossare una veste che veli ogni mancanza a essere – è la traccia già percorsa che diventa valida anche per darsi identità posticce, da rinforzare (magari con appartenenze esibite sui social). Ciò può spiegare il fenomeno sociale della moltiplicazione delle identità femminili, ma anche della loro fragilità, poiché queste non sono più ancorate al dato forte, quello biologico della maternità, che è stato smantellato perché letto solo come espressione della volontà claustrale del patriarcato. Il risultato? Sempre più uomini che hanno smarrito il fallo, cioè la connessione automatica tra il desiderio e l’erezione, e sempre più donne alla ricerca di identità che strutturandosi prevalentemente sulla traccia feticistica dell’essere un fallo non sono che velature insufficienti a saturare il bisogno di certezza sul proprio essere (l’identità). Ecco l’origine psicologica della pulsione definitoria del femminile, che produce però solo immagini identitarie cangianti, mutevoli e inconsistenti.

CR