La malattia della responsabilità

Oggi, nella parlata comune, si usa il termine depressione per indicare ogni percezione negativa della nostra interiorità. Quando non ci sentiamo emotivamente bene diciamo che siamo «depressi» e usiamo in modo intercambiabile i termini depressione e tristezza. Ma quale peso ha il contesto socioculturale nel determinare stati emotivi spiacevoli? E, più in generale, è possibile ipotizzare una causa socioculturale per spiegare la depressione? Sono domande la cui risposta ha implicazioni terapeutiche di peso e vorrei subito dire che, se l’ipotesi di una genesi socioculturale della depressione ha buone ragioni di cui sto per dire, da un vertice clinico la depressione prende forma da una congerie di fattori causali di cui spetta solo al clinico individuare la natura e il peso per definire l’adatto programma terapeutico. Fatta questa dovuta precisazione, non ho difficoltà a dire che la nostra società è certamente strutturata in modo da produrre sentimenti depressivi.

Mi spiego. Il senso di insufficienza, sfiducia, perdita dell’interesse e della capacità di progettare e agire è intrinseco a una società dove le norme della convivenza civile non si fondano più sul senso di colpa e sull’appartenenza ma sullo spirito d’iniziativa, sull’autorealizzazione, sulla responsabilità.

Ne consegue che una parte di noi esprime la stanchezza di dover diventare se stesso o di essere sempre all’altezza. Da un punto di vista socioculturale potremmo definire questo tipo di malessere una «malattia della responsabilità». Nelle società tradizionali – per capirci quelle dei nostri nonni o bisnonni – le persone non si percepivano tanto quanto individui ma piuttosto come parti di una comunità sociale. La maggior parte di loro, nel corso della storia, ha vissuto in piccole comunità e ha intessuto un numero ristretto di relazioni. Tutti erano profondamente coinvolti negli eventi che occorrevano nei loro contesti d’appartenenza, che si caratterizzavano per la presenza di gerarchie rigide e l’assenza di ascensori sociali, cosa che comportava che la nascita era destino e tutti avevano già un posto assegnato nella società. Non esistevano «le scelte di vita», per nessuno avrebbe avuto costrutto una frase del tipo «debbo trovare la mia strada», al contrario i giovani erano indirizzati dai membri della famiglia e dalla saggezza degli anziani, per i quali non era stato ancora inventato il ruolo di pensionati.

Insomma, i nostri ascendenti hanno vissuto in un contesto culturale molto diverso da quello attuale, segnato precipuamente dall’individualismo ovvero dalla propensione delle persone a privilegiare i benefici individuali rispetto a quelli che riguardano la collettività. La modernità, nel bene e nel male, ha capovolto i cardini della società tradizionale: i ruoli sociali sono divenuti mobili, i ruoli di genere si sono diluiti, non vi è più continuità intergenerazionale, si vive spesso lontano dai parenti, si viaggia molto e si diluiscono i legami con la comunità d’origine, gli anziani e le tradizioni sono percepiti come «arnesi» ingombranti e inutili, la scelta dell’occupazione è divenuta un fatto personale e ognuno di noi deve assumersi il peso e il rischio delle proprie decisioni. Ognuno è libero, ma anche libero di sbagliare, e ciò accentua l’alone di solitudine esistenziale. La società moderna offre opportunità favorevoli a coloro che sanno coglierle, ma è piuttosto ostile nei confronti di chi è meno dotato; è difficile per chi è impulsivo fare una pur minima carriera, per le persone timide intrattenere una relazione amorosa, per una persona con un deficit mentale essere inserito in un contesto produttivo reale. Chi non è in grado di farsi spazio nel contesto sociale promosso dalla modernità soccombe perché nessuno lo farà per lui. Le moderne agenzie sociali deputate alla gestione dell’emarginazione vicarieranno la latitanza della comunità, che istituendole ha già di fatto promosso la marginalizzazione del non allineato, del diverso, di colui che inciampa nell’adeguarsi alle pressioni sociali.

Molti cedono dunque alla cosiddetta «depressione» quando falliscono nell’assunzione di responsabilità richiesta dalla modernità. Altri, angosciati dalla libertà di sbagliare nel prendere le scelte costitutive per la propria identità, si nascondono dietro le grandi cause promosse dai movimenti politici radicali o dietro gli assolutismi religiosi che conferiscono identità e senso di appartenenza in apparenza gratuito. Non è quindi un azzardo affermare che si vive in un contesto competitivo poco incline a inglobare chi fatica a governarlo. Non sorprende che molti di noi tracimino nello sconforto e gettino la spugna, con l’effetto di sentirsi inadeguati e alimentando così il circolo vizioso dei sentimenti e dei pensieri depressivi. Ecco la torsione emotiva che si denomina impropriamente «malattia depressiva» ma che meglio sarebbe indicare come «malattia della responsabilità», per curare la quale bisognerebbe intervenire sull’eccesso di individualismo della società piuttosto che su chi, per legittima debolezza, ne è rimasto schiacciato.

CR