Ciò che è sotteso al pieno godimento sessuale

Il sesso in una coppia è importante! Lo si dice e lo si pensa. Che cos’è una coppia senza il sesso? Può una coppia essere tale senza praticare la sessualità? Ma è davvero così importante tenere accesa la fiamma della passione in una coppia che è tale da tempo? Non basta l’amore? Queste sono domande che si sentono spesso, soprattutto da persone in affanno con le cose d’amore o di sesso. Ma qui non voglio affrontare l’argomento partendo dalle domande, piuttosto dal senso radicale proprio della sessualità quando è davvero goduta, e non mi riferisco quindi alla sessualità come mero esercizio coitale finalizzato ad acquietare quella tensione corporea di cui la natura scandisce i tempi e la cui intensità o frequenza scema nel tempo. No, qui il punto in gioco della riflessione è il significato sotteso all’esperienza sessuale compiuta, pienamente goduta; quell’esperienza sessuale che coincide con il massimo eccitamento e godimento, e non alla soddisfazione di bisogni «altri» attraverso la pratica del sesso. Il sesso serve a tante cose: a verificare di piacere ancora, di essere ancora i preferiti, a soddisfarsi nel soccorrere il bisogno sessuale del partner, ma può anche servire a guisa di procedura di controllo del partner o di mera pratica di scarico della tensione fisica o, ancora, a dirsi – facendolo – che si è normali e non è il caso di mettersi in discussione. Ma tutto ciò non è qui all’ordine del ragionamento. Qui intessa dire che cosa è sotteso all’esperienza di un incontro sessuale percepito come pienamente soddisfacente, che di solito si sviluppa sul filo di fantasie sessuali condivise e che si dipanano sui sentieri feticistico-sadomasochistici della ordinaria perversione nevrotica. 

Chi fa esperienza di questo godimento lo percepisce come un momento sospeso, diverso dal tempo ordinario della vita, un momento «altro», che è certo attraversato da un eccitamento intenso ma ha anche una qualità particolare che lo rende evento, che lo emancipa dalle percezioni proprie dell’ordinario esercizio del coito, che è particolare a quella coppia, che a ben vedere rende i due attori dell’incontro speciali l’uno all’altra. La questione è, quindi: che cosa fa sì che il normale piacere sessuale diventi un’esperienza di speciale godimento? Che cosa è sotteso, immanente e non noto, a quel godimento che la rende così particolare? Per rispondere mi appoggio al mito generativo della nostra tradizione culturale a cui è immanente lo specifico della nostra condizione umana: il peccato originale e la relata cacciata dal paradiso. Il fatto è noto a tutti nella sua forma narrativa e iconografica, e quindi per brevità lo ometto. Il punto è che prima della comparsa della parola, quella di Dio, che vieta l’accesso all’albero della conoscenza siamo fuori dalla storia: non c’è parola che vieta e quindi che castra, non c’è sofferenza e pertanto nulla da dire, perché nulla manca ai due beati progenitori. La trasgressione del divieto e il suo prezzo: vivere nella mancanza, esposti alla perdita, nella percezione della nostra immanente fragilità, danno ragione della particolare cifra della nostra umanità, sempre esposta al taglio, alla riduzione.

Mai, tuttavia, ci si è rassegnati a tale stato e la storia umana – dal progetto babelico sino alle ideologie utopistiche del Novecento – sono a dirci del nostro iperaffacendamento in questo estenuante secondo lavoro di ricerca e recupero di un luogo non intaccato dalla mancanza. Bene, la sessualità, quella che percepiamo come molto eccitante, che ci estranea dal nostro modo abituale d’essere, che conferisce più unità ai due complici, che è attraversata da una sottile percezione di trionfo nel tempo del graduale ridursi della sua attivazione, credo possa inserirsi nella particolare diatesi umana del volersi fare dei, cioè esseri non intaccati dalla castrazione, dalla mancanza, come lo erano i nostri progenitori prima della fatale trasgressione alla parola di Dio. Credo pertanto che la sessualità più eccitante sia tale perché innervata da questa occulta tensione a emanciparsi dalla miseria dei tagli a cui siamo soggetti. Ne consegue che godere davvero è anche una sorta di attacco a Dio e ai suoi rappresentanti in terra: il re, lo stato, il padre.

Ecco uno degli aspetti sulfurei del godimento sessuale che spiega perché ogni società si è sempre occupata di regolare la sessualità dei suoi componenti anche quando è libera, in apparenza, come accade oggi. Ma tornando al cuore della riflessione possiamo domandarci quale sia il tortuoso passaggio che porta a far coincidere la sessualità con la temporanea negazione della castrazione e gli conferisce quel godimento in più che lega i due amanti, poiché li rende complici dell’impresa per cui, sia pur per il tempo del sesso, il paradiso prende forma in terra emancipandoli dalla castrazione. Perché questo accada è pero inderogabile una particolare torsione della sessualità: è necessario che la sessualità si faccia fallica. Il fallo – il pene eretto per intenderci – simboleggia la fertilità, il potere, la forza, insomma la pienezza dell’essere, una condizione non intaccata dalla miseria del limite (la nostra vita è segnata dai limiti del corpo, della mente, dell’Altro che eccede sempre le nostre aspettative). Ora, per l’impresa di quel godimento in più, che emancipa il coito dalla sua dimensione fattuale, occorre che la «mancanza a essere», la castrazione che segna ogni esistenza, si dilegui in modo che il coito avvenga all’ombra del fallo.

Ma quale fallo? Quello delle donne! Certo l’affermazione è in apparenza paradossale, ma bisogna tenere in conto che chi possiede un fallo – l’uomo – può, per il fatto di possederlo, perderlo; del resto questa è una temuta evenienza che colonizza sempre il sentire maschile. Ma chi, invece, «non lo ha» il fallo – la donna – può acquisirlo indossandone le insegne simboliche: tacchi alti, vestiti sexy, indumenti in pelle, in lattice ecc., in modo da rendere il suo corpo un feticcio del fallo che, nella parodia sadomasochistica non francamente perversa, le conferisce le qualità dell’essere a cui nulla manca. Ecco, le donne non hanno il fallo, ma possono diventare fallo, «essere fallo»: un fallo speciale, che poiché non si ha non può essere perso. Un fallo, quindi, che rimanda alla vera pienezza dell’essere: fertilità, potenza, energia inesauribile. Un fallo alla cui ombra si accende la passione poiché consente la negazione della castrazione o, detto in altro modo, realizza per il tempo del godimento il recupero del paradiso perduto, cioé il luogo, nel mito, della non castrazione. Qui è la torsione vincente dell’ordinaria perversione di coppia, poiché il corpo reso feticcio è un fallo non intaccabile – per il tempo del sesso – dalle contingenze della vita, al contrario di quello maschile che può incorrere nella miseria della perdita della sua turgidità. È la donna che si fa fallo che ha il vero potere di spegnere la dimensione depressiva e antisessuale della perdita, della mancanza a essere e rendere l’esperienza sessuale gloriosa, trionfale, speciale, tale da lasciare nei due attori la percezione dell’impresa. E le imprese portate a termine, lo sappiamo, legano assai i loro protagonisti. In questa dialettica uomini e donne sono, quando non nevroticamente inibiti nella loro espressività sessuale, meravigliosi complici nell’eludere la miseria della loro mancanza per il trionfo della loro eccitazione o, se preferiamo, per il temporaneo recupero del paradiso perduto. Non è poco e tutto ciò lega molto.

Questa spiegazione non è tuttavia risolutiva, né può tantomeno esserlo: il mistero è la cifra della sessualità e a noi è solo consentito illuminarne le fenditure per individuare tracce di senso. 

CR