Sulla paura degli psicofarmaci (parte prima)

Alcune persone, e non sono poche, evitano di consultare uno psichiatra per il timore che questi prescriva loro degli psicofarmaci. Altri, quelli coraggiosi, spesso dopo infinite titubanze osano la consultazione ma si affrettano a dichiarare «Sono contrario agli psicofarmaci». Quando poi, forzando il loro credo, accettano di provare ad assumerli la prima domanda è «Ma per quanto tempo?». La preoccupazione è tale da far smarrire il vero punto della consultazione. La domanda potrebbe piuttosto essere «C’è una terapia adatta a me? Potrò guarire?». Per quanto attiene la mia esperienza vi sono molteplici ragioni sul perché ciò accada, alcune di carattere generale e altre di tipo personale. In questa riflessione intendo soffermarmi su quelle generali, riservandomi di trattare le altre in un secondo momento.  

Esiste una cattiva informazione sugli psicofarmaci attuata e sostenuta ad arte, per ignoranza o per interesse, da tutti coloro che traggono benefici dall’offrire altre risposte «terapeutiche» a chi soffre di un disturbo mentale. Queste persone propongono al paziente soluzioni in linea con ciò che quest’ultimo desidera e non con ciò di cui ha realmente bisogno. Il ventaglio dei proponenti è ampio e a misura di tutti: dallo psicologo sino al mago, passando per farmacisti, omeopati, fitoterapeuti, erboristi, personal coach, guru e anche filosofi. Chiedo scusa a chi non risulta compreso in questo elenco ma pur si prodiga a sostenere un’insensatezza che sarebbe evidente se invadessero qualsivoglia altro ambito medico non psichiatrico.

Intendo dire che a fronte di un sintomo fisico inusuale a tutti noi è da subito chiaro che è necessario consultare un medico. Incomprensibilmente a fronte di sintomi emotivi persistenti (ansia, paure, disinteresse, tristezza, scarsa energia, pensieri insistenti, iperattività ecc.) il medico in questione, cioè lo psichiatra, è l’ultimo a essere consultato. Insomma rifiutiamo di prendere atto che i nostri pensieri e le nostre emozioni siano anche il distillato di complessi processi neurobiologici e, come per ogni funzione biologica del nostro organismo, anche quella cerebrale può alterarsi. Essere cartesiani, ovvero continuare fuori tempo massimo a sostenere che corpo e pensiero siano cose diverse, è alla base di questo folle equivoco. Già immagino chi interpreterà queste parole come una difesa di bottega. Non lo è, e la riprova sono tutti i casi di suicidio e di vite spezzate dalle condotte di evitamento, dalle ossessioni o soffocate dall’ansia. La risposta sono tutte le relazioni affettive e lavorative inabissatesi sotto il peso della psicopatologia, che si è scelleratamente scelto di contrastare con un ricostituente, un fitofarmaco, un farmaco omeopatico o colloqui utili ad altri ma non a preservare queste persone dalle loro criticità. Resta inteso che le parole possono aiutare e l’effetto placebo esiste, e se questo basta ben venga. Ma quando le soluzioni diciamo «dolci» non sono efficaci, senza perdere troppo tempo, dobbiamo bonificarci dall’inquinamento ideologico dell’«io sono contrario agli psicofarmaci e quindi non vado dallo psichiatra che potrebbe propormeli». È una posizione che ha sempre creato mostri, fallimenti e morti, sia quando si è declinata nella storia sia quando ci orienta nella scelta delle strade terapeutiche.

Concludo indicando la soluzione. Di fronte alla sofferenza sforziamoci di recuperare l’antica virtù dell’umiltà: affidarsi a qualcuno più competente a valutare cosa in noi non funziona; provare ad accedere alla modernità rifiutando l’illusione cartesiana che la mente sia altro dal corpo e come tale non necessiti di cure proprie del corpo, quali i farmaci e nello specifico gli psicofarmaci.

CR