Non si è innamorati se non si è «in attesa»

L’attesa è un tempo interiore che divide ed è un aspetto ineludibile dell’essere innamorati. Potremmo dire che non c’è innamoramento senza il sentimento dell’attesa. L’attesa conferisce drammaticità all’esperienza dell’innamoramento perché segna la distanza tra i due amanti, che tendono «a fare del Due un Uno» ma che nell’attesa vivono intanto la miseria della loro incompiutezza. L’attesa amorosa è costitutiva dell’innamoramento e allo stesso tempo ne denuncia lo scandalo: ci racconta di come sia periglioso e dolente il percorso fino al suo ideale, ovvero la fusione di anime e corpi. Ma l’attesa è anche, in qualche modo, la prova generale della fine dell’innamoramento. Vediamo meglio.

Innanzitutto, cos’è l’attesa? Scartabellando sui dizionari troviamo almeno tre accezioni che danno forma al concetto: l’attesa è uno stato d’animo, lo stato d’animo di chi si dispone ad aspettare un altro; l’attesa è l’azione compiuta da chi aspetta; l’attesa è il tempo che mi separa dal ricongiungermi con l’Altro. L’attesa è quindi un concetto articolato fatto di sentimento, azioni e tempo. Anche se l’idea dell’attesa evoca una situazione statica e sospesa in cui il protagonista non ha il potere di incidere, tuttavia non è solo uno status indicante immobilismo ma anche una vera e propria azione. Chi attende spera, si pone all’ascolto, rivisita il passato e scruta il futuro, oltre che infarcire di azioni rituali il presente. L’attesa è dunque azione. Però non deve essere confusa con la ricerca, la conquista, poiché queste per realizzarsi necessitano di un movimento del soggetto verso l’oggetto.

L’attesa al contrario si caratterizza per il suo inevitabile immobilismo rispetto all’oggetto: chi attende non va incontro perché o non sa dove andare o sa che non gli è concesso andare. È tuttavia una staticità che contiene un tumulto di azioni e stati emotivi. Un esempio: state aspettando che lui vi telefoni, nulla potete se non aspettare; ma non state ferme, muovete nervosamente le mani, controllate l’orologio, camminate avanti e indietro, guardate fuori dalla finestra, aprite la dispensa e divorate biscotti, pensate al vostro ultimo incontro, le cose dette e quelle che avreste voluto dire, non rispondete ad altre telefonate (meglio non rischiare di avere il telefono occupato quando lui chiamerà) e vi domandate cosa fare se non dovesse arrivare la telefonata. Tutte azioni per far passare il tempo, dedicarsi ad altro, ostentare indifferenza agli altri e a se stessi. Dunque, l’attesa amorosa è una miscela di azioni, pensieri ed emozioni che accadono in una condizione di passività, che consiste nello stare fermi – in un luogo o in un contesto – per il tratto di tempo che separa la percezione di un bisogno o un desiderio dalla sua realizzazione, e che può essere vissuta dal soggetto con una varietà di stati d’animo che si pongono tra la disperazione e la speranza.

Vittorio Alfieri nella Vita scritta da esso, la sua bellissima autobiografia, ci regala una lucida descrizione del caos emotivo che caratterizza l’attesa: «Ritornato io la mattina dopo in Londra (era appena rientrato a casa dopo aver incontrato la sua amante Penelope Pitt in una villa a sedici miglia da Londra, N.d.A.) fremeva e impazziva pensando che altri due giorni dovrei stare senza vederla, e annoverava l’ore e i momenti… Non ritrovava mai pace se non andando sempre, e senza saper dove; ma appena quetatomi o per riposarmi, o per nutrirmi, o per tentar di dormire, tosto con grida e urli ero costretto di rimbalzare in piedi, e come un forsennato mi dibatteva almeno per la camera, se l’ora non permetteva di uscire». L’attesa amorosa è quindi immobilità inquieta. Roland Barthes nel suo Frammenti di un discorso amoroso (1977) la descrive come «tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato (di cui siamo innamorati, N.d.A.) in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, messaggi, ritorni)». E non di meno riconosce nell’attesa uno dei movimenti topici e fondanti della dinamica amorosa. Vediamo perché.

L’attesa è l’essenza stessa del discorso amoroso. Come possiamo dire di essere innamorati se in attesa del nostro amato non sperimentiamo il «tumulto d’angoscia»? Insomma, siamo innamorati perché stiamo aspettando. Non c’è innamoramento senza attesa. E quando vi chiedete se siete innamorati, è l’esperienza dell’attesa (gioiosa o angosciosa che sia) che vi permette di dare una risposta. Marcel Proust, in un passo de Alla ricerca del tempo perduto (1913-1927), ha tratteggiato una mirabile sintesi di quanto detto: «È questo l’amore: lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore». Questa riflessione invita anche a fare un ragionamento sul rapporto dell’attesa amorosa con il suo oggetto, ossia la persona di cui si è innamorati e che quindi si aspetta. Ci pare ovvio che l’attendere sia strettamente connesso al nostro amato, eppure proprio l’identità di essere colui che aspetta può paradossalmente affrancare l’attesa d’amore dal suo oggetto. Come dire: è più importante aspettare che rincontrare per essere innamorati. Mi spiego: come vi sentireste se il vostro amato facesse collassare il tempo dell’attesa subissandovi di telefonate e dimostrandosi sempre disponibile a incontrarvi? Meno innamorati? Probabilmente sì. Eppure è la stessa persona, ma il suo comportamento rischia di soffocare un aspetto costitutivo dell’innamoramento, proprio l’attesa. Un aneddoto su questo tema ci è offerto di nuovo da Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso, quando racconta di un mandarino innamorato di una cortigiana. «Sarò vostra» disse lei «solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra». Ma alla novantanovesima notte il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto braccio e se ne andò. Strano? Un po’, ma l’aneddoto offre un caso limite dove l’approssimarsi del termine dell’attesa estingue la passione dell’innamoramento.

Un altro esempio letterario più vicino alla nostra sensibilità è fornito da Flaubert in Leducazione sentimentale (1869): «Decideva di andare a trovarla, ma quando raggiungeva la porta di quel secondo piano aveva paura di suonare. Sentiva dei passi che si avvicinavano; la porta si apriva e alle parole ‘la signora è fuori’ provava un senso di sollievo come se gli si togliesse un peso dal cuore». Ma tutto questo lo sapevate già. Chi non ha mai sentito il detto «In amore vince chi fugge»? Certo, vince chi sa modulare la giusta distanza con il proprio oggetto d’amore, in modo tale da difendere la dinamica dell’attesa. Se vince colui che fugge dobbiamo quindi dire qualcosa sul potere che, più o meno consapevolmente, esercita su colui che attende. Nella dinamica dell’attesa amorosa il potere è nelle mani di chi detta i tempi. Chi aspetta deve fare i conti con la mancanza, con la nostalgia e, non da ultimo, con la penosa sensazione di aver perso la propria libertà. «Può fare di me ciò che vuole, sarà la volta che andrò a sbattere la faccia» si racconta il soggetto innamorato. E qui accadono due cose: una conforme al cliché romantico e l’altra più affine alla modernità. Nel primo caso l’innamorato inizia paradossalmente a utilizzare tutti i mezzi che ha per difendere la sua dipendenza. Sentirsi dipendenti significa anche rinforzare il nesso che ci lega alla persona amata e promettere fedeltà è la strategia più utilizzata per vitalizzare la propria condizione di dipendenza. Nel secondo caso, si prova a vivere l’innamoramento escludendo l’esperienza della dipendenza. Questi nuovi innamorati, figli della modernità, tentano di instaurare relazioni con persone da cui sono attratti evitando con scrupolo le parole dell’amore infarcite di rimandi alla dipendenza. Non dichiarano il loro stato, ma contrattano la nascita di relazioni sotto l’egida del «vivi e lascia vivere».

Questo perché l’attesa oggi è percepita come uno scandalo. Viviamo in una società individualista dove l’uomo «che non deve chiedere mai» o la donna del «perché io valgo» aborrono l’attesa che appare ingloriosa, anacronistica e indicatrice di un intollerabile squilibrio tra le parti. Del resto lo sappiamo bene: chi detiene il potere schiva l’attesa, ma fa attendere. Insomma, l’attesa è fuori moda e ci si difende dallo sperimentarla al prezzo di inaugurare relazioni che assomigliano a storie di reciproco e condiviso uso delle qualità dei contraenti. È vero, sono relazioni in cui non «manca l’aria», ma tuttavia manca qualcosa di vitale: manca l’esperienza della dipendenza dall’amato che si traduce nel sentimento di attesa, la cui assenza non consente all’aspirante innamorato di percepirsi come tale. Ecco cosa non torna a chi prova a intessere relazioni – dichiarate «amorose» – che, spurgate dalla frustrazione dei tumulti emotivi dell’attesa, perdono il filo rosso dell’innamoramento.

CR