Lo scacco della parola nell’esperienza depressiva

Le parole non possono comunicare la totalità dell’esperienza umana. E questo è tanto più vero nella sofferenza depressiva. Chi ha vissuto la condizione depressiva vera conosce l’impotenza del linguaggio nell’esprimere l’intensità e la qualità del dolore che si prova. Un tormento che, poiché non ha le parole per essere esternato in modo efficace, tende a essere sminuito da chi lo ascolta, quasi a metterne in dubbio l’autenticità o a attribuirne minor dignità rispetto a quella che di solito si riconosce al dolore fisico.

In fin dei conti, il dramma del depresso è che è attraversato da una sofferenza che pare non esistere, perché le parole non la possono compiutamente descrivere. Il corollario del suo dolore è proprio questo: essere attorniato da persone che non capiscono ma pensano di capire, poiché come tutti un po’ tristi sono stati e si prodigano dunque a dare consigli che non potranno essere recepiti ma avranno piuttosto l’effetto di far precipitare la già precaria autostima del depresso.

In quali termini è allora possibile descrivere un dolore che non si può localizzare? Come delineare lo smarrimento di ogni forma di desiderio? In che modo spiegare comprensibilmente la sensazione di non esserci più? Non è possibile, le parole falliscono nel sondare la dimensione profonda del dolore depressivo. L’emarginazione del depresso inizia proprio da questa afasia linguistica della sofferenza che lo separa progressivamente dalle persone a lui vicine. Accade così che lo scacco della parola si tramuta in gesto, atto, posa. Che si tratti del rallentamento dei movimenti, della postura di chiusura, di improvvisi scatti d’ira o di azioni autolesive, è il livello del non verbale che tende a imporsi e a significare il disagio esistenziale. Di fronte all’impotenza della parola, spetta all’atto accollarsi il gravoso tentativo di esprimere l’indicibile della sofferenza depressiva.

CR