Dichiarare la dipendenza per eluderla

Vi sono alcuni che temono la dipendenza dall’Altro al punto da diventare dipendenti da persone che, come loro, sono impaurite dall’idea di dipendere da qualcuno, e poco importa se ciò genera sofferenza o confusione. Sono persone che debbono coniugare il bisogno di essere in relazione con la garanzia che questa, se spazzata dalle contingenze della vita o dal lavoro certosino delle loro difese nevrotiche, non lascerà strascichi di sofferenza emotiva, come forse è loro accaduto in passato.

In psicoterapia queste persone sembrano non poter fare a meno del terapeuta, appaiono insomma dipendenti da lui e anzi lo dichiarano. È un movimento che cela una strategia inconscia in cui la dichiarata dipendenza non è che il cavallo di Troia per sabotare l’azione terapeutica, che esporrebbe il paziente alla dipendenza buona, quella riconoscente, quella per cui la presenza o l’assenza dell’altro fa la differenza. In questo caso il paziente si troverebbe a fare i conti con lo scandalo di una affettività che da tempo ha deciso di non ascoltare e dalla quale si protegge dichiarando la dipendenza dal terapeuta o dalla terapia, ma operando sotto traccia per renderla inefficace.

Infatti, se questa sortisse il suo benefico effetto, determinerebbe nel paziente l’esperienza della vera dipendenza, quella per cui il cambiamento è avvenuto insieme a un’Altro (il terapeuta e la relazione terapeutica) a cui si e consegnato – probabilmente in un momento di debolezza – per essere aiutato. Meglio quindi dichiararsi, a parole, dipendenti dalla terapia piuttosto che aprirsi a un cambiamento che lega davvero e sottolinea la nostra mancanza a essere in assenza di un nostro altro significativo.

CR