Quando si è lasciati ovvero sulla fenomenologia del dolore amoroso

Gli amori sono divenuti “liquidi”, ci ha insegnato Zygmunt Bauman, e le relazioni “pure”, cioè basate sulla parità sessuale, sentimentale ed emozionale, ci insegna Antony Giddens. L’esito clamoroso di queste mutazioni, occorse nell’interpretazione di ciò che da senso allo stare insieme, è che la tenuta delle relazioni è divenuta più fragile, e da esse ci si sfila con facilità, non essendoci più agenzie sociali a proteggerle. Sul lasciarsi, quindi, incombe meno la zavorra dalla riprovazione sociale, ma non è certo meno doloroso di un tempo. La modernità ci ha consegnato la libertà di svincolarci dai legami amorosi, quando ci sembrano catene, ma certo non ci risparmia il dolore emotivo, e spesso fisico, che accompagna la fine di una storia d’amore. Di questo oggi provo a dire.

Premetto che ciò che è peculiare nell’interruzione di una relazione amorosa, che sia voluta o subita, è che questo evento mette fatalmente in discussione i due protagonisti, nei quali persiste un sentire che ha a che fare con la rottura stessa, ambedue condividono quella frattura che separando li unisce nel lavoro di ridefinizione delle proprie identità: per entrambi inizia un lavoro che li interroga su chi sono e su chi credono d’essere. Certo è diverso e più complicato se la separazione è subita, poiché un nuovo oggetto d’amore si è insinuato in una faglia di coppia ridisegnando le economie degli affetti. In quest’evenienza, quella più foriera di dolore, possiamo domandarci che cosa si diventa quando si smette d’essere amati? In prima battuta cessiamo di sentirci attraenti, divertenti, intelligenti. Sentiamo che la nostra identità è in liquefazione. Chi sono io adesso che non sono più nulla per te? La domanda è urticante, perché spesso siamo lasciati non per quello che siamo ma proprio per quello che non siamo. Perché non coincidiamo più con il desiderio dell’altro o perché abbiamo perso la nostra capacità di desiderare. Ci si sente indegni dell’amore poiché si è stati lasciati, gettati via come scarto. Al riguardo Roland Barthes: “Anche la questione del mio valore entra in gioco nella relazione amorosa.” L’essere lasciati coincide, dunque, con l’essere svalutati e con lo svalutarsi.

Ancora peggio è quando si assiste alla fine della storia e all’inizio di un’altra che si sta scrivendo in nostra assenza. Osservare l’evento che ci distrugge è un cataclisma che ci sfalda al punto che, in una situazione così radicale, il lasciato sente di svuotarsi, di svanire, non è più capace di stimare sé stesso e addirittura di soffrire della propria sofferenza.

Per fortuna non tutte le rotture amorose hanno la stessa brutalità, ma di certo quando l’altro cessa di amarci vi è un’emorragia: i confini dei corpi, un tempo mescolati, vengono meno e quel che resta della nostra identità si ha la sensazione che defluisca da noi stessi. Il corpo condiviso dell’amore, invisibile ma presente, prolungamento del corpo reale, si è rotto e noi non siamo che un moncone di un corpo straziato. Diciamo, infatti, “sono a pezzi”. La rottura è poi anche un’esperienza di dolore incarnato: la nostra andatura si fa incerta, lo sguardo sfuggente, la schiena più curva, il volto è teso. Si tratta di un corpo dolente che si muove al rallentatore torturato dalla mancanza delle carezze e degli sguardi dell’altro. È un corpo “scarto” che dà ragione a chi lo ha lasciato. La rottura fa invecchiare improvvisamente. Non meno estraniante è l’esperienza con quegli oggetti che presentano tracce della precedente esistenza a due – si è infatti circondati da oggetti che sono solo più il ricordo di un tempo condiviso, animati dal fantasma di chi non c’è più e cessano così di essere sentiti come propri. Insomma, è il mondo quotidiano che si svuota della sua sostanza e noi viviamo in esilio in esso. A ogni risveglio il dolore della separazione ci crolla addosso e così accade che non ci separiamo una volta ma migliaia di volte e, provando a guadagnare la giornata, abbiamo sentore di ciò che Michel de Montaigne ha compiutamente espresso: “Eravamo metà di tutto… adesso sono solo mezzo.”

Avrà mai fine questo strazio? Non è detto che sia sempre possibile. Si muore ancora d’amore, pur restando in vita. In ogni caso ci vuole tempo per disabituarsi all’assenza della presenza dell’amato, per disassuefarsi dall’abitudine reciproca dei corpi che costituivano un corpo immaginario ma condiviso.

Quando questo tempo verrà ci sorprenderemo nel sentire che si pensa a lui o a lei senza soffrire troppo. Claire Marin dice che quel tempo è inaugurato dal “penso a ‘lui’ e non a ‘te’”, dove l’altro che ci ha straziato è evocato alla terza persona, ha perso lo status del “tu” interiore. La dissoluzione del “tu” è quindi il giro di boa che fa segno dell’inizio dell’emancipazione dal dolore dell’abbandono amoroso, che inaugura “l’ancora” di una nuova possibilità di un altro investimento amoroso.

CR